LA MALATTIA “MISTERIOSA”

Anna Marinutti nasce a Udine nel 1964. A due anni inizia a manifestare “misteriosi” sintomi reumatici a carico degli arti inferiori, in particolare dei piedi, e viene ricoverata nell’ospedale cittadino, senza che i medici riescano a risalire all’origine dell’infiammazione articolare. La madre di Anna, infermiera, la fa visitare anche dai cosiddetti “aggiustaossa” e “aggiustanervi”, senza risultato. Dopo un breve passaggio al Rizzoli di Bologna, Anna viene ricoverata presso l’ospedale pediatrico universitario Meyer di Firenze, dove rimane in cura per diversi anni. Alla bimba vengono somministrate terapie palliative e cortisone per spegnere l’infiammazione ma, di fatto, nessuno riesce a capire di cosa soffra esattamente. Intanto, compie sei anni. E questo è il suo racconto. Il punto di vista di una bambina, diventata ragazza e poi donna, alle prese con una malattia cronica invalidante: l’ARI, artrite reumatoide infantile ribelle.

Le cronache dicono che ero perfetta, bellissima, parevo truccata. Poi, a 6 mesi, ci fu un problema che mi fece entrare in contatto con l’ospedale: ero anemica. Per mia fortuna ero “ammanicata” in ospedale, mia madre e sue cugine lavoravano li, una di loro era in maternità quindi conosceva pediatri che mi misero a testa in giù e riuscirono a trovare una vena in mezzo alla fronte. Fu così che mi feci 5 trasfusioni.

L’ARI arrivò più tardi, ma nessuno la conosceva a Udine, e così, sempre grazie al passaparola, andai prima al Rizzoli di Bologna, dove non espressero alcun parere, e poi al Meyer di Firenze nel gennaio 1967, quando la città si stava ancora asciugando dall’alluvione. In questo ospedale non mi dicevano che cosa avessi, ma ogni volta stavo là per molto tempo, tant’è che il mio primo dialetto è stato il fiorentino.

Cosa mi sono portata con me di quel periodo? Il ricordo di una bambola acquistata prima di entrare in ospedale, quello dell’edicola di fronte, del treno che passava, dei bimbi nelle incubatrici, di un’infermiera che mi disse: “Che ci fai qui senza far nulla, vai a scuola!”, e di un puzzle che portai a casa. Ricordo che con il treno facevamo tutte quella gallerie dell’Appennino per arrivare a casa, e che una volta in treno avevo sonno e dei gentilissimi arabi vestiti con vestiti tradizionali bianchi mi lasciarono il posto per farmi dormire, con grande imbarazzo di mia madre. Ricordo che la cura era a base di cortisone e ricordo che sbattevo moltissimo gli occhi, ed ero sempre bella tonda.

Che quando mia madre veniva a prendermi in ospedale a volte non la riconoscevo… no, questo non lo ricordo. Ma succedeva.

Il ritorno a casa era sempre bello, mio padre mi aspettava alla finestra della camera, non vedevo i suoi occhi, ma so che luccicavano, per lui era un grande dispiacere questa mia malattia sconosciuta. Poi ritornavo alla vita di sempre.

Stavo quasi sempre dai nonni con il mio cane Gioia che mi aveva superata in altezza ma mi riconosceva, andavo all’asilo ma ne ho un brutto ricordo: i bambini non giocavano con me, anche perché io avevo difficoltà a giocare al mattino, avevo una partenza lenta, facevo le scale con il sedere e arrivata in fondo chiamavo mia nonna che poi mi faceva dei massaggi con qualcosa che scaldava, questo mi permetteva di andare in asilo ma non certo di correre. Infatti non ho amiche d’infanzia.

MILANO E LA DIAGNOSI

L’8 agosto del 1971, Anna, sua mamma e suo papà, “sbarcano” al Gaetano Pini di Milano, e la bimba viene ricoverata e sottoposta a cure per le malattie reumatiche, all’epoca, sperimentali: i sali d’oro. Le terapie sono associate a tanta, tanta ginnastica. Anni importanti, quelli al Pini, dove, finalmente, arriva la diagnosi che spiega quegli strani reumatismi: ARI, artrite reumatoide infantile ribelle. 

Anna rimane ricoverata nella struttura sanitaria milanese – sebbene non continuativamente – fino ai suoi 15 anni. A 14 anni si ammala di morbillo, guarendo completamente solo dopo 40, lunghi giorni.

Nel frattempo arriva anche il menarca, e con lo sviluppo puberale la sua situazione migliora nettamente. Anna va in remissione…

Un giorno, sempre mia madre, mi disse che una signora le aveva parlato di un posto a Milano dove un’altra signora era andata ed era migliorata, e così partii in macchina per raggiungere l’istituto Gaetano Pini.  Una volta là, il dottor Ballabio, che era a capo di un’equipe di giovani dottori, mi visitò dicendo: “Salviamo il salvabile”. Così l’8 settembre del 1971, andai per la prima volta al San Luca di Corso Italia a Milano, dove c’era la sede distaccata del G. Pini.

Quella volta venne anche mio papà a ricoverarmi, ma questo per me e per lui fu un disastro: io che non avevo mai emesso lacrima in nessun ricovero, in questo piangevo. Piangevo io, e piangeva lui. Ma questo posto era destinato ad essere “casa mia” per parecchi anni, infatti i ricoveri erano sempre parecchio lunghi. La malattia, alla quale finalmente diedero il nome di artrite reumatoide infantile ribelle – questa è la definizione esatta che ho da qualche parte nelle carte – era da poco tempo oggetto di studio soprattutto nei bambini, quindi visto che io ma anche altri venivamo da lontano, ci facevamo soggiorni lunghi al San Luca. In pratica ci studiavano.

La ginnastica era il dovere di ogni giorno, e le mie ginocchia, che non piegavo molto, venivano obbligate con fermezza dalla fisioterapista Giuseppina a cedere un po’ alla volta. Dall’epoca di Bologna, dove avevo solo una caviglia gonfia, ora avevo le ginocchia come due patate, solo che le mie erano calde. Poi c’erano le visite dei dottori: il dottor Gozzoli, che passava due volte al giorno e scherzava con noi, e il dottor Fantini che invece era più serio più severo, tanto che quando arrivava lui c’era il silenzio di come quando passa il preside a scuola. Il primario, prof. Ballabio, si faceva vedere soltanto raramente, ma in quei momenti non volava una mosca.

A differenza di Firenze, la vita di Milano me la ricordo di più. Le infermiere mi riconoscevano perché erano più o meno sempre le stesse. Erano carine con noi, la sera se c’era tempo scherzavano con noi, ma ci sgridavano anche se esageravamo, e come fossero delle madri dalle quali imparare le aiutavamo, ad esempio sistemando i letti nella stanza dei più piccoli per andare a dormire. Erano cose semplici, innocue, che però ci facevano sentire grandi.

Ricordo che giocavamo a far dispetti a chi era in trazione, a scivolare con le carrozzine, facevamo passare le giornate abbastanza bene, a volte qualcuna piangeva, a volte ci si ritrovava, spesso gli altri genitori venivano a cercarmi per salutarmi, per vedere se avevo bisogno di qualcosa. Ma io non avevo bisogno mai di nulla, perché c’era la Mirella, la zia di mia cugina, che una volta a settimana veniva a trovarmi ed accudirmi.

La telefonata della mamma ogni settimana arrivava puntuale, e mi raccontava di mio papà, dei cuginetti, del mio cane: tutti mi aspettavano. A casa non c’era il telefono, quindi la chiamata la faceva dall’ospedale dove lavorava, previa autorizzatone della suora, del reparto, e per questo doveva essere veloce. Ma a me bastava.

Poi un giorno arrivava il dottor Gozzoli che ci diceva: “Allora, tu vai a casa la prossima settimana”. E nella tua cartella in fondo al letto appariva quel foglietto verde che tutte noi aspettavamo.

Tra le 10,30 e le 11,00 stavo alla finestra, e finalmente eccola, era mia madre che arrivava a prendermi! Dopo aver parlato con i dottori, dopo avermi vestita, salutavamo tutti e via verso casa. Lui era sempre là alla finestra, con gli occhi pieni di lacrime. Il mio papà che una volta mi disse: “Se nemmeno a Milano ti guariscono, andiamo all’estero”. Ma non ce ne fu bisogno, ogni volta che ritornavo stavo meglio, e il tempo tra un ricovero e l’altro si dilatava.

La mia vita nella mia città però non mi piaceva, i bambini mi prendevano spesso in giro, certo non camminavo benissimo, e ho il sospetto che a scuola mi considerassero ritardata.

Molti anni dopo ho scoperto di essere dislessica e discalculica e credo che, se allora le insegnanti lo avessero saputo, avrebbero di certo avuto un atteggiamento diverso. Ma anche questo non si conosceva, e ti dicevano pietosamente “….Potrebbe ma non si impegna”. Io invece mi impegnavo, cercavo di far piacere questa bambina, poi ragazza. Perché a Milano mi accettavano tutti, e qui no? Perché non volevano sapere che là ero simpatica, allegra, giocavo e mi volevano bene tutti, e qui dovevo conquistarmi un po’ di affetto e amicizia?

Arrivarono i 15 anni e, stranamente, il ricovero di quell’anno fu anche l’ultimo di quella serie con cadenza annuale. Io non volevo andarmene da Milano, là stavo bene, ma ritornai e…

Quell’inverno papà morì. Mi aveva lasciata. Sola.

L’adolescenza porta ad Anna cose tristi, come perdita del padre, ma anche buone: la sua artrite va in remissione per diversi anni. La ragazza torna a Udine e riprende una vita più o meno normale. La malattia si “sveglia” dopo i 20 anni in modo lieve, andando ad interessare solo gli arti superiori, ma senza crearle problemi particolari. Anna è oggi seguita presso il Centro reumatologico di Udine, assume un antireumatico di fondo, e la sua artrite è ancora in remissione. È consapevole che l’ARI potrebbe “risvegliarsi” in qualunque momento, e non sa cosa succederà in futuro.

Sa, però, che al momento sta bene e può condurre una vita normale, svolgere ogni giorno il suo lavoro di impiegata, dedicarsi a ciò che le piace, passare del tempo con la sua mamma. Una condizione inimmaginabile, viste le premesse! Ma i continui ricoveri, le lunghe separazioni dalla famiglia, le difficoltà a scuola, il sentirsi “diversa” e le prese in giro per quella “malattia da vecchi”, hanno lasciato il segno. Un segno più profondo persino dei danni che l’artrite ha prodotto sulle sue ginocchia. Il dolore di un’infanzia frammentata e anomala, in cui il microcosmo ospedaliero offriva più protezione e calore di un “fuori” ostico e indifferente, ha aperto in Anna ferite difficili da rimarginare.

Per questo il messaggio che ci lascia è molto chiaro: quando un bambino si ammala di una malattia cronica, tutto il sistema – scolastico e familiare – ha il dovere di supportarlo in ogni modo. Anche dando un nome, il nome giusto, alla sua patologia. Senza drammi.

Gli anni successivi non furono belli, e visto che non “ci arrivavo con lo studio”, andai a lavorare. Mi presero in una società molto grossa, io non sapevo nemmeno cosa fare, ero la più piccola e per questo i colleghi si divertivano a provocarmi per farmi diventare rossa. L’artrite ora stava “addormentandosi” piano piano, andavo una volta all’anno a Milano e quando arrivavo ero felice, il dottor Fantini mi riconosceva, mi chiedeva: “Come stai?”. Che non era: “Come stai paziente?”, ma: “Come stai, Anna?”.

Ripensando alle reazioni della gente, ricordo che da piccola, quando camminavo per la strada con mia madre, mi dicevano: “Oooh, poverina che cos’ha?”. Del resto non sono mai stata deformata e quindi non si capisce che di cosa soffro. In seguito, quando ero un po’ più grande e spiegavo come si chiamava la mia malattia, le persone mi dicevano: “Anna come stai oggi? Perché anche io ho tanto male qui e là”. Fastidio! Non sopportavo e non sopporto queste lamentele, mi veniva da rispondere: “Ma che ne sai tu del dolore? Che ne sai tu di cosa vuol dire avere le ginocchia gonfie e non poter correre, non riuscire a fare le scale e non sentirsi come gli altri!”.  Io ho vissuto la mia infanzia adattandomi alle mie limitazioni, quindi per me era una cosa “normale”, capisco che per un adulto al quale insorgono i dolori da età o la vera malattia reumatica sia difficile adattare la propria vita, ma non sopporto gli adulti lamentosi. Forse è una forma di snobismo o di rabbia da parte mia.

Sono molte le sciocchezze che ho fatto per sentirmi normale, per sentirmi accettata, ma devo dire che mi sono serviti anche parecchi anni di psicologa, e tanti fazzoletti.

Negli anni, quella bambina (testarda) che “potrebbe ma non si impegna” è riuscita a laurearsi, è riuscita a fare pace con molte cose che nel tempo si erano incancrenite. Purtroppo, ha anche imparato ad andarsene per prima, prima che i sentimenti siano impegnativi, prima che di scoprire di poter ricevere un rifiuto dagli altri. Un po’ come quando ti dimettono dall’ospedale, o ti ricoverano. Vado via io, e ricomincio da capo. Questo mi ha danneggiato parecchio, limitando le conoscenze a davvero pochissime persone. Quelle che hanno resistito.

Oggi sono davvero contenta pensando ai bambini stanno poco in ospedale perché non c’è più bisogno di studiarli in diretta come invece è successo a me. Soprattutto, sono lì con le madri e i padri, che possono prendere permessi e tante cose che i miei genitori non hanno potuto avere, e così non si spezzano i rapporti. Le malattie reumatiche non sono più una “bestia nera” che non si sa da che parte prendere, e quindi per loro fortuna i bimbi possono fare una vita assolutamente uguale a tutti gli altri.

Se fossi insegnante, e avessi un bimbo con l’artrite o con qualunque altra malattia, credo che ne parlerei in classe, anche raccontando di me, di come io come stavo, e facendo i confronti con loro.

Per concludere dirò una cosa che mi ha fatto vedere la mia malattia con altri occhi. Il mio dottor Fantini un giorno mi disse: “Ma guarda che tu non hai i reumatismi, tu hai l’Artrite Reumatoide”. Fu così che quella malattia che credevo solo dei vecchi andò ad occupare un suo preciso posto all’interno di uno scaffale, e questo me la fece accettare.